rovenendo da Roma dopo aver superato il valico delle Tre Torri o dopo 
			aver superato la galleria della Nunziata Lunga, compare l’estesa 
			pianura venafrana ove ancora oggi si riconoscono a 
      vista i segni indelebili degli impianti urbanistici del passato sia 
      nell’attuale tessuto urbano che nel disegno generale della proprietà 
      fondiaria.
      Il suo territorio, abitato fin dalla preistoria, è situato ai confini 
      occidentali del Molise, incuneandosi tra la Campania, il Lazio e 
      l’Abruzzo. E’ limitato dai due massicci del Matese e delle Mainarde ed è 
      attraversato dal fiume Volturno. Dall’analisi delle fonti letterarie, 
      dall’esame dei monumenti, dallo studio del territorio dell’Alta Valle del 
      Volturno, risulta chiaro il ruolo determinante della città di Venafro in 
      ogni epoca.
      E’ evidente che soprattutto il suo rapporto con il territorio ne ha 
      condizionato lo sviluppo e la forma urbana. Tuttavia la sua forma 
      particolare e l’aspetto architettonico di gran parte degli edifici, 
      risultano condizionati non solo da fenomeni artistici determinati da 
      particolari correnti di cultura ed economia, ma anche dal signore che in 
      questa o in quell’epoca vi dominava. Per questo non è possibile tracciare 
      una stratigrafia della città, essendo essa cresciuta sempre sullo stesso 
      posto adattandosi a particolari esigenze economiche e sociali che spesso 
      hanno portato alla scomparsa delle preesistenze.
      La 
      Preistoria
      
      E’ praticamente impossibile stabilire con assoluta certezza l’epoca e 
      l’origine del primo insediamento venafrano.
      Dai ritrovamenti di arnesi litici e di bronzo in vari punti 
      dell’insediamento, possiamo dire che essi costituiscono una valida 
      testimonianza che ci porta ad affermare che il territorio fu abitato fin 
      dalla Preistoria.
      Tra gli oggetti più interessanti vi è una amigdala, pietra a forma di 
      mandorla, perfettamente conservata e date le sue notevoli dimensioni (24 
      cm.) è tra le più grandi che si conoscano. Altri pezzi ritrovati furono 
      frecce, pugnali, punteruoli, ed altri utensili. La maggior parte di essi 
      appartiene certamente al periodo paleolitico e cioè tra il 650.000 ed 
      10.000 avanti Cristo.
      Tali elementi, sebbene ci confermino insediamenti molto antichi, non sono 
      tuttavia sufficienti a fornirci un quadro preciso della situazione.
      I 
      Sanniti
      
      Data l’assoluta mancanza di documenti storici ed epigrafici, 
      resta ancora tutta da esplorare la storia dei Sanniti e il loro modo di 
      organizzarsi.
      Furono descritti come rozzi e feroci per il loro modo di difendersi dal 
      potere romano che in tutti i modi cercava di sottrarre loro il territorio. 
      Lo studio sulla provenienza delle prime popolazioni organizzate che si 
      siano sistemate nell’area sannita è arrivato al punto di poter dire che il 
      loro modo di organizzarsi in questa regione certamente fu fortemente 
      condizionato dal particolare carattere geografico.
      Non risulta che essi abbiano costruito una città intesa nel senso di luogo 
      ove si potesse godere di certi servizi concentrati i uno spazio ristretto, 
      ma piuttosto è da ritenere che abbiano tentato di creare una grande città 
      territorio.
      In essa si muovono attraverso strade interne le cui difese non sono cinte 
      murarie ma consistenti massicci montuosi. Il continuo spostarsi sul 
      territorio dovuto sia alla loro tecnica di guerra e sia all’esigenza di 
      pascoli sempre verdi regolati dalle stagioni portavano alla 
      sacralizzazione di particolari punti del territorio.
      I resti di murazioni preromane alle spalle dell'abitato, sconosciute fino 
      a poco tempo fa, non ci permetteva di identificare un vero e proprio 
      insediamento sannitico, ma il recente rilievo di approfondimento sul monte 
      S. Croce della cosiddetta Rocca Saturno, effettuato nel mese di maggio 
      2002 da F. Valente, ha permesso di identificare diverse centinaia di metri 
      di mura megalitiche costituenti un vero e proprio recinto. Pertanto questo 
      recente ritrovamento sul punto più alto di monte S. Croce permette di 
      poter identificare quello che forse era il vero insediamento sannitico di 
      Venafro. Ci si auspica che studi e approfondimenti futuri ci presentino un 
      quadro chiaro e definitivo per quest'epoca. Tale ritrovamento si mette in 
      diretto collegamento con il sentiero gradonato che da Venafro conduce a 
      Conca Casale attraverso lo sbarramento naturale e di facile controllo 
      costituito dalla cosiddetta montagna Spaccata.
      
      La Città Romana
      
      Nonostante la mancanza di mezzi e strumenti che permettessero un'indagine 
      precisa sui resti e sulle emergenze romane, nel XVII secolo Ludovico Valla 
      ebbe a descrivere quella che fu la città romana. Tra i primi studi sulla 
      città romana effettuati con le moderne tecnologie bisogna far riferimento 
      a quelli condotti da Adriano La Regina che attraverso l'interpretazione 
      delle foto aeree riuscì ad allargare i limiti di estensione della città 
      romana portandoli ad includere la parte medioevale della città ed 
      estendendoli fino all'anfiteatro. Ipotesi successive di F. Valente hanno 
      individuato in corrispondenza dell'attuale via Plebiscito (via per dentro) 
      il decumano maggiore della città romana partendo da quelli che erano gli 
      assi principali di penetrazione alla città che terminavano ai limiti di 
      questa strada e individuando nello spazio antistante la chiesa del Carmine 
      la porta Romana e nello spazio contiguo alla torre del Mercato la porta 
      orientale. Il cardo maggiore invece è associato alla via Porta Guglielmo, 
      popolarmente chiamata “i cuanal”, allineata con la via per Napoli. 
      L'incrocio delle due strade principali, analogamente a città simili, 
      costituiva il foro e doveva probabilmente corrispondere con la piazza 
      Garibaldi e tutta l'area intorno.
      Al di sotto di tale basolato si ritrova una cloaca romana, alta in media 
      120 cm. e larga 90 cm, ancora oggi funzionante e che potrebbe essere 
      considerata la “maxima“ sia per le sue dimensioni che per la 
      corrispondenza al decumano maggiore. 
      
      L’acquedotto romano 
      Lungo circa 
      trenta chilometri, l’acquedotto venafrano prelevava le acque direttamente 
      alla sorgente del fiume Volturno per distribuirla non solo alle ville 
      urbane ma anche ai lotti della centuriazione. Purtroppo il condotto, per 
      la sua particolare posizione generalmente a mezzacosta, ha subito nei 
      secoli sia l’erosione naturale che quella umana.
      L’opera è realizzata in opera cementicia con le pareti interne ricoperte 
      da intonaco levigato. La larghezza media del condotto è di circa 65 cm. 
      per un’altezza di 160 cm.
      L’uso e la salvaguardia dell’acquedotto erano regolati da un apposito 
      decreto emanato dall’Imperatore Augusto. La lapide su cui sono scolpiti i 
      vari articoli del regolamento è oggi conservata al Museo Archeologico di 
      Venafro. Alla sua interpretazione si applicarono il Mommsen, l’Henzen ed 
      il Garrucci.
      Dal primo articolo ricaviamo la data di costruzione che è antecedente 
      all’impero di Augusto, mentre nel secondo si dispone che i proprietari dei 
      fondi attraversati dal condotto non possono impedire che l’acqua giunga in 
      città e così via per giungere infine alla soluzione delle controversie, al 
      pagamento del dazio e al risarcimento di eventuali danni. 
      
      
      La Venere di Venafro
      Le ville 
      realizzate dai romani erano espressione di ricchezza e benessere ed a 
      conferma di ciò sono i numerosi reperti rinvenuti durante saggi di scavo o 
      casualmente. Tra i ritrovamenti casuali vi è la famosa statua, realizzata 
      a grandezza naturale, della Venere di Venafro. Rinvenuta negli anni 
      cinquanta nelle vicinanze dell'anfiteatro romano (verlasce) durante lo 
      scavo per la costruzione di un'abitazione privata probabilmente era parte 
      del giardino e più esattamente costituiva un elemento di una fontana , 
      visto il delfino al lato della gamba sinistra della statua realizzato in 
      maniera tale che la bocca fungesse da zampillo. L'opera dopo essere stata 
      per anni ospitata nel Museo Nazionale di Chieti oggi può essere ammirata, 
      in tutto il suo splendore, in una sala del Museo Archeologico S. Chiara di 
      Venafro.
      La 
      Tavola Acquaria
      
      L'utilizzo e la manutenzione dell'acquedotto erano regolati da un editto 
      emanato da Augusto ed inciso sulla Tavola Acquaria unico elemento 
      esistente sulla regolamentazione romana degli acquedotti. Il reperto 
      quando fu identificato era di proprietà della sig. ra Anna De Utris e dei 
      fratelli Simonetti. Il Comune di Venafro in data 1876 ne propose 
      l'acquisto. La De Utris fece donazione dei suoi diritti mentre i fratelli 
      Simonetti a seguito di trattativa economica, raggiunta la cospicua somma 
      di lire 700, rifiutarono la cessione iniziando una trattativa con il Museo 
      Campano di Capua. Per evitare la definitiva perdita del prezioso reperto 
      il Comune di Venafro interessò l'Autorità giudiziaria che ne dispose il 
      sequestro conservativo.
      Sull'interpretazione del contenuto del testo della Tavola Acquaria si sono 
      misurati nel tempo i maggiori studiosi, Garrucci, Mommsen, Henzen, Capini, 
      ma tra le interpretazioni più importanti restano quelle del Mommsen e la 
      recente di Stefania Capini. Il documento è datato tra il 17 e l'11 a.C.. 
      la sorveglianza dell'acquedotto e la distribuzione delle acque era 
      affidata ai Duoviri giusdicenti e Duoviri delle acque. In caso di 
      controversie tra questi interveniva un Prefetto da Roma. I proprietari 
      terrieri erano obbligati a lasciare a lato del condotto una fascia di 
      rispetto di 2.36 metri (8 piedi) ed a provvedere alla manutenzione.
      Il 
      Nucleo Longobardo
      
      riconducibile a questo periodo è lo spostamento del nucleo abitato dal 
      colle S. Leonardo, dove oggi si trova la Cattedrale, al colle S. Angelo. 
      Ragioni di sicurezza contro le incursioni nemiche e osservazioni fatte 
      sulle distruzioni occorse negli anni addietro durante il verificarsi di 
      fenomeni calamitosi possono ricondurre fecero colle S. Angelo come luogo 
      per l'insediamento longobardo. Tutto era costituito da un nucleo di case 
      che sorgevano attorno alla torre quadrangolare dell'attuale castello 
      Pandone. La torre, detta più propriamente mastio, era un elemento di 
      difesa passiva. Infatti al suo interno dove si accumulavano beni e 
      mercanzie per il conte era possibile accedere solo da un'apertura posta in 
      alto. Una volta entrati veniva ritirata la scala in legno e si restava in 
      attesa, nel caso di attacchi, che il nemico andasse via. Dalla torre si 
      staccava una cinta muraria che percorrendo l'attuale via mura ciclopiche 
      raggiungeva la portella delle Mancanelle. Da qui la cinta scendeva verso 
      la chiesetta delle Mancanelle e passando alle spalle del Palazzotto, 
      attraverso una direzione non proprio identificata si riconduvea alla torre 
      qudrangolare. Elemento interessante di questo periodo è il capitello 
      longobardo murato in un cortiletto di via della Vergine, già segnalato da 
      F. Valente e da quest'ultimo riportato interamente alla luce, le cui 
      volute rappresentano delle corna di diavolo avvolte su se stesse.
      Il 
      Borgo Medievale
      
      Dai numerosi ritrovamenti e 
      soprattutto dalla grande quantità di elementi attualmente visibili è 
      possibile ricostruire con precisione l'andamento delle mure medievali. 
      Partendo dal castello, seguendo l'allineamento dell'attuale via mura 
      ciclopiche, si raggiunge la porta della Mancanelle. Piegando a gomito 
      verso valle e seguendo la scarpata naturale del giardino della famiglia 
      Ruocchio, piegando nuovamente a 90° in direzione seminario raggiunge una 
      torre quadrata nei pressi di quello che era il Palazzo Reale di Venafro. A 
      questo punto una nuova piega a 90° verso valle porta a seguire l'intero 
      allineamento del corso Garibaldi. Infatti le facciate delle case che si 
      attestano su tale strada sono state costruite appunto sulle mura 
      medievali. Completando la discesa le mura raggiungevano l'ancora visibile 
      torre di Portanuova e da qui si ricollegavano direttamente a quella che 
      era una torre quadrangolare, l'antica torre S. Agostino, successivamente 
      trasformata in Palazzo De Lellis oggi Vitale seguendo l'allineamento di 
      via Caserta. Lungo tale strada è ancora visibile in vari tratti il muro a 
      scarpa. Dalla torre S. Agostino il muro si collegava alla torre Caracciolo, 
      meglio conosciuta come torre del mercato. Tra queste due torri sono ben 
      visibili tratti di mura a scarpa al di sotto dell'attuale biblioteca 
      comunale e nel fondaco del palazzo comunale. Dalla torre del Mercato le 
      mura seguivano l'attuale via delle Taverne e si ricollegavano al Castello. 
      Lungo l'intero gior di mura si aprivano, oltre alla citata porta delle 
      Mancanelle, la porta del Giudice Guglielmo e l'arco di S. Lazzaro meglio 
      conosciuta come Portanova. Altra porta si trovava in piazza Cimorelli tra 
      la torre del Mercato e l'attuale casa Comunale.